New York Storie

Bryant Park, domenica, 6pm

bryant park ice ring

Bryant Park, domenica, 6pm.
Jeff mi chiama Marisa, perché dice che assomiglio a Marisa Tomei, e mi tratta come una novellina.

“Hai un bel coraggio a metterti un cappotto bianco a New York. Non te l’hanno detto che questa città è sporca da far schifo?”
“Beh, io sono una persona ottimista”, rispondo decisa.

Dopo meno di un quarto d’ora ho una patacca di vino proprio al centro del cappotto bianco, all’altezza dello stomaco.
“Te l’avevo detto, Marisa!”, ride.

Jeff lavora tanto, guadagna tanto e si diverte poco. Ha 41 anni, una barba da hipster e abita in un palazzo con portiere a Greenpoint, Brooklyn. Ha avviato una start up di internet che sviluppa app per smartphone. Per lui è assolutamente normale lavorare al computer fino alle 3 di notte. Mi incuriosisce la vita del tipico newyorkese malato di lavoro.

Quando mi dice “Troviamoci a bere qualcosa che tra poco finisco una riunione”, io sto facendo la classica turista in cima al Top of The Rock, sgomitando con visitatori italiani, giapponesi, tedeschi per fare una foto all’Empire State Building al tramonto.

“Sono in zona Hudson Yards a Chelsea, raggiungimi qui”, mi scrive su Whatsapp.
Scendo dal Rockefeller sulla Fifth Avenue e mi avvio camminando verso ovest in direzione Hudson River. Anche se ho circa mezzora di strada, so che, non avendo ancora imparato a memoria le linee della metro, ci impiegherei di più a capire quale stazione è più comoda e quali cambi fare.
“Va beh, troviamoci a metà strada: Le Pain Quotidien a Central Park”, mi scrive dopo un po’.

Cambio direzione e mi incammino verso nord sulla 6th Ave.
Dopo qualche minuto, altro Whatsapp: “Ma dove sei?! Senti, ti vengo incontro. Troviamoci a Bryant Park”.

Mi giro e torno verso sud. A questo punto sto percorrendo da dieci minuti la Sixth Avenue su e giù come una pallina da flipper.

Quando arrivo a Bryant Park, Jeff mi sta già aspettando e non capisco come abbia fatto ad arrivare così presto visto che era molto più lontano di me.
Le luci della pista di pattinaggio sono accese e decine di persone girano intorno, alcune piroettando, altre attaccate al bordo incerte. Sullo sfondo l’Empire, che stasera è illuminato d’oro.

“Prima o poi devo provarci anch’io, ma non ho ancora deciso se qui o a Central Park”, dico.
“Sai pattinare?”
“No, ma è una tipica esperienza newyorkese”.

Quando inizia a fare freddo decidiamo di spostarci in una birreria.
“Che birra ti piace?”, mi chiede mentre camminiamo.
“La Ipa – rispondo – Qui a New York va un sacco, giusto?”
“Sei rimasta indietro, Marisa. Adesso va la sour beer. E’ una birra artigianale molto acida”, mi spiega.

A questo punto decide che non posso assolutamente restare ignorante in merito e mi trascina fino a Williamsburg dove conosce un bar che, secondo lui, ha la miglior sour beer di New York.

Jeff adora questa zona di Williamsburg, tra Lorimer e Grand Street, perché prima di trasferirsi a Greenpoint abitava qui.

“Mi piacerebbe tornare. – mi spiega – Greenpoint è bella, ma troppo tranquilla. Nel mio palazzo sono tutte coppie e famiglie tranne me”.
“Hai dei coinquilini?”, chiedo, pensando che con gli affitti stellari di New York è molto comune condividere l’appartamento per dividere le spese.
“Stai scherzando? – ride divertito – Non ti ho appena raccontato che per la mia prossima vacanza sto spendendo 10.000 dollari solo per l’albergo?”
“Ehi scusa, non volevo dire che sei povero!”, dico alzando la voce e gesticolando più del solito.
“Ah ah, ora sembri proprio italiana!”
“Ma io sono italiana! Cosa c’è di male?”
“Ma no scusa, lo sai che adoro il vostro paese, altrimenti non verrei in vacanza lì”.

Jeff normalmente si nutre di insalate di quinoa, avocado e strani hamburger fatti di finta carne derivata dai vegetali, con massiccia aggiunta di aromi artificiali.
“Ci tengo alla mia salute, non voglio che mi venga un attacco di cuore a quarant’anni”.
In realtà, però, adora il cibo italiano e tra poco partirà per Bologna: “Mi hanno detto che lì la mortadella è buonissima! Non vedo l’ora”, mi spiega entusiasta. Sono incredula. “Poi mi sposterò ad Alba perché voglio mangiare una quantità impressionante di tartufo”.

Sul bancone del Beer Karma ci sono vasi di vetro pieni di pacchetti di caramelle. Mentre aspettiamo che arrivino i nostri bicchieri di birra, estraggo un pacchetto di Swedish Fish.
“Che roba è questa?”, chiedo.
“Non conosci i Swedish Fish?! Ma siamo tutti cresciuti con quelli!”, risponde Jeff.
“Beh, in Europa non esistono e francamente non credo nemmeno che questa roba sia davvero svedese”.

Ora la missione di Jeff è farmi assaggiare tutte le caramelle gommose, palline di zucchero fosforescenti e altri dolcetti della sua infanzia.
“Sul serio non li hai mai provati?! – si unisce la barista, sorpresa – Devi assolutamente assaggiare anche questi!”.

I due iniziano a estrarre dal vaso, uno dopo l’altro, pacchetti di roba dolciastra, colorata e appiccicosa.
“Assaggia questi, ti prego!”, Jeff mi sta rovesciando sul palmo della mano una manciata di palline giallo fluo che sembrano polistirolo sbriciolato, mentre sto ancora cercando di staccare con la punta della lingua un Swedish Fish che mi è rimasto appiccicato al palato.

Penso di non aver mai ingerito tanti zuccheri e coloranti in una sera sola. E il contrasto con la birra acida mi fa sembrare questa roba ancora più incredibilmente dolce.

Quando finiamo la birra e tutte le caramelle del vaso, ci alziamo per tornare a casa. Mi avvio verso la stazione di Lorimer, ma Jeff non è d’accordo.
“E’ tardi, ci metterai una vita ad arrivare fino a Crown Heights. Prendi un taxi”.
“Mi piace la metro – insisto – Così posso osservare le persone”.
Salgo sul treno della linea L e arrivo fino a Union Square, dove dovrei prendere la 3 fino a casa.

Ho fame. In tutto ciò non abbiamo mangiato nulla, se non caramelle appiccicose. Mi fermo all’edicola e, nella distesa di snack e dolcetti americani, individuo un Twix. Pago e mi dirigo al binario della linea 3. Scopro, però, che il prossimo treno è previsto tra 35 minuti.

Il binario è quasi deserto, ci siamo solo io e altre due persone. Dopo qualche minuto arrivano gli addetti alle pulizie che con un tubo iniziano a spruzzare acqua su tutta la piattaforma, rischiando di farmi la doccia.

E’ quasi l’una. Sono lì in piedi, con un cappotto macchiato, gli stivali bagnati e un Twix per cena.
“Fanculo la metro”, mi dico.
Prenoto un Uber mentre salgo le scale su Union Square.

Il mio autista si chiama Mohamed e per fortuna è di poche parole. Incollo il naso al finestrino e guardo New York di notte. Union Square, che di giorno è un caos pittoresco di passanti, turisti, musicisti di strada, giocatori di scacchi e hare krishna, ora è deserta. Più giù, al West Village, invece, c’è ancora un bel po’ di gente che entra ed esce dai locali.

Corriamo verso est. Chinatown. Le luminarie rosse su Canal Street che somigliano a lanterne di carta.

Mohamed imbocca il Manhattan Bridge e io guardo scorrere di fianco a noi la silhouette del ponte di Brooklyn immerso nel buio, illuminato solo da una linea di lucine tonde lunghe i tiranti, come un lunghissimo filo di stelle appeso ai piloni di mattoni.

Entriamo a Brooklyn e attraversiamo Park Slope, dove tutti ormai dormono nelle loro case signorili. Poi Grand Army Plaza, con il grande arco di trionfo al centro che mi pare ridicolo per quanto è pretenzioso. La biblioteca, liscia e lineare. Il Brooklyn Museum con la facciata di un tempio greco e le alte colonne bianche.

Mentre mi infilo a letto, arriva un messaggio di Jeff.
“Sei arrivata sana e salva?”
“Ehm, sì… Alla fine ho preso un Uber… La metro era troppo in ritardo”.
“Ah ah, lo sapevo! Buonanotte Marisa”.

[ New York, Bryant Park / Williamsburg ]

photo credits: ©SerenaMarchini

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