New York Storie

Quel giorno che correvo sulla scalinata del Met

metropolitan museum

“E’ proprio vero che qui a New York sono tutti di corsa!”, sento una turista italiana dire al suo ragazzo, mentre entrambi mi guardano correre giù dalla famosa gradinata del Metropolitan Museum sui miei tacchi alti, con addosso un candido cappotto bianco fresco di lavanderia e una sciarpa tempestata di brillantini che mi svolazza dietro alle spalle.

Forse pensano che stia rincorrendo l’amore della mia vita in un complicato intreccio sentimentale tra giovani privilegiati dell’Upper East Side. Oppure che abbia appena ricevuto una terribile notizia, che mi ha sconvolta a tal punto da farmi uscire di corsa dal museo.

Di certo non immaginano che semplicemente mi scappa terribilmente la pipì.

Ho scoperto che andare al bagno la domenica pomeriggio nell’Upper East Side non è così facile. Verso sera ho in programma un aperitivo con alcuni amici al rooftop bar del William Vale Hotel, a Williamsburg. So che l’ambiente è piuttosto raffinato, quindi mi metto un po’ in tiro. Prima, però, vorrei fare una passeggiata a Central Park, visto che è una bella giornata di sole, e anche se sono fin troppo elegante per una camminata al parco non m’importa.

Dopo un po’, però, colpa forse dello scrosciare ininterrotto della Bethesda Fountain, dove prima mi sono fermata per un po’ a lanciare monetine e scegliere accuratamente i desideri, mi accorgo che devo andare alla toilette.
Cercare un bagno a Central Park mi sembra un’impresa. Già mi perdo tra i suoi vialetti normalmente, figuriamoci se sono in stato di emergenza.

Qui vicino, però, c’è il Metropolitan Museum e i musei hanno sempre un bagno all’ingresso. Attraverso il parco e mi dirigo in fretta verso il Met, anche perché nel frattempo la mia vescica si è fatta più insistente, salgo le scale del Met, faccio la coda per i controlli di sicurezza e mi dirigo direttamente al banco informazioni.

“Scusi, dov’è il bagno?”
“E’ lì, dopo l’ingresso dietro la statua greca. Però deve fare il biglietto d’ingresso per accedere. Sono 25 dollari”.
“Ma io devo solo andare in bagno”.
“Eh no, mi spiace, o fa il biglietto o non può entrare”.

Al Met sono già stata varie volte e ci tornerei altre mille. Tra poco più di un’ora, però, devo essere a Williamsburg e non farei in tempo a vedere quasi nulla. Valuto per un secondo l’ipotesi di spendere 25 dollari solo per fare la pipì. Ma no, è assurdo, mi dico.

A questo punto, però, sono in un vicolo cieco. Cerco di passare in rassegna le opzioni, ma non me ne vengono in mente molte. Tornare a Central Park e cercare un wc pubblico? Ci impiegherei troppo e probabilmente sarebbe lercio. In questo pezzo della Fifth Avenue che costeggia Central Park non ci sono bar, ma solo palazzi privati o musei con bagni inaccessibili. L’unica possibilità è addentrarmi all’interno dell’Upper East Side. Corro giù dalle scale del Met e percorro la 82nd Street come una scheggia. Un portiere mi guarda incuriosito da dietro il vetro di un portone decorato come un gioiello.

Arrivo in Park Avenue ma qui ci sono solo i palazzi dei super-ricchi. Proseguo. Madison Avenue. Provo a percorrerla, ma sono quasi tutti negozi di abbigliamento e profumerie. I pochi caffè che incontro sono chiusi.
Invidio il barboncino perfettamente tosato (i miei capelli non sono mai stati così a posto) che mi guarda altezzoso dal guinzaglio del suo padrone mentre alza una zampa e fa pipì contro un lampione.

Madison Ave è una perdita di tempo. Provo ad andare ancora più in là su Lexington Ave, sperando che in questa via più trafficata, dove c’è persino un ospedale, ci sia qualche bar aperto di domenica.

Passo davanti a una tavola calda, ma sta abbassando la saracinesca. Anche qui, tanti bar e ristoranti sono chiusi. C’è un fast food messicano, ma non sembra molto pulito e persino da fuori con la porta chiusa riesco a sentire un forte odore di formaggio bruciato. Non voglio presentarmi al William Vale lasciando la scia di puzza di tacos scadenti.

Dopo un po’ incontro una bella pasticceria francese, elegante e profumata. Perfetto! Mi precipito dentro ma subito vengo fermata: “Sorry, we are closing”.

Vado ancora più avanti e incontro un caffè-ristorante molto chic. La fila di persone in attesa di un tavolo arriva fino alla porta. Cerco di abbassarmi e di sgattaiolare dietro le spalle della hostess che sta prendendo le prenotazioni, ma mi intercetta e mi blocca dicendomi che è tutto al completo e devo aspettare in coda.

Cammino ancora sulla Lexington verso nord tra i negozi chiusi. Finalmente una vetrina accesa: un bagel shop dall’aria un po’ dimessa che puzza di pane tostato. Quando uscirò da qui sarà come se fossi appena stata sputata fuori da un tostapane, ma a questo punto mi scappa da morire e non posso più fare la schizzinosa.

Il locale è vuoto. Dietro al bancone cinque pakistani discutono tra loro rilassati.
“A coffee!”
Uno dei pakistani si stacca dal gruppo e senza fretta mi raggiunge alla cassa.
“Mmmmm… what type of coffee, miss? Normal… strong… special blend… decaf… hazelnut…”
“Hazelnut!”, rispondo. Già che ci sono, almeno mi coccolo con un caffè alla nocciola.
“Ok, miss, hazelnut… And how do you want it? Small… regular… large”.
“Small! Sorry, where’s the toilet?”

Mi indica la porta e mi precipito. Ma non si apre. C’è un tastierino su cui bisogna inserire un codice.
“Excuse me!”, urlo al gruppetto di pakistani che nel frattempo si sono rimessi a chiacchierare tra loro dietro al bancone.
“What’s the door code?”
“Sorry, miss?”
“The door code!”
“I can’t hear you, miss”.
“The door coooooooode!!!!”
“Oh sorry, miss, it’s 1234#”
Digito sul tastierino 1234# ma la porta non si apre.
Riprovo. Niente.
“It doesn’t work!”
“Oh sorry, miss. It’s 2345#”

Finalmente la porta si apre. Faccio pipì. Butto giù il caffè alla nocciola ed è già ora di chiamare un Uber.

Il mio autista, Saul, è messicano.
Mentre attraversiamo il Queensboro Bridge gli dico che devo andare al William Vale, ma può lasciarmi davanti al Wythe Hotel, che poi ho solo due passi.

“Cioè… il Uait Hotel, Uaif, Uaitz… Insomma, questo cavolo di ‘th’ non riesco mai a pronunciarlo”.
“Consolati, io abito qui da vent’anni e ancora non ci riesco”, mi risponde comprensivo.
“Boh, mia sorella mi diceva sempre: ‘Ma è facile, basta mettere la lingua in mezzo ai denti’. Ma se lo faccio rischio di sputare”.
“E’ un po ‘t’, un po’ ‘d’”.
“Con un po’ di ‘f’ però”.
“E un po’ ‘s’ anche”.
“Wythe”.
“Three”
“Thirteen”
“Thieves”.
“Three thieves at the thirteen floor of the Wythe Hotel”.

Arriviamo a destinazione e mentre scendo mi lascia il suo biglietto da visita: “Tieni per quando torni a New York”.
Forse per allora avremo entrambi imparato a pronunciare il ‘th’.

[ New York, Upper East Side ]

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