New York Storie

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central park

Nel mio ultimo giorno a New York sono andata a salutare alcuni dei miei posti preferiti in città: il mio bar in Franklin Avenue, il giardino di Elizabeth Street, la New York Public Library, Bryant Park, le strade dell’Upper West Side e, alla fine, Central Park.

Quel giorno salutavo la città in cui avevo vissuto per un mese e, anche se il mio non era un addio ma un arrivederci, non potevo che essere un po’ triste. New York mi ha dato tutto quello di cui avevo bisogno, soprattutto quando non sapevo di averne bisogno.

Nel mese che ho vissuto qui, New York mi ha regalato incontri bellissimi, esperienze meravigliose, idee, ispirazione.

Ma, soprattutto, mi ha ricordato chi sono quando mi sentivo così persa da ricordare di me stessa a malapena il nome stampato sul passaporto e poco altro. New York mi ha accolta quando non mi sentivo a casa da nessuna parte. Non mi ha mai fatta sentire fuori posto. In fondo, qui, ero solo una persona tra milioni di altre persone che non sanno bene cosa stanno facendo o dove stanno andando.

In questo mese, New York mi ha parlato incessantemente. Mi ha detto “Dream” in un murales a Chinatown. Mi ha detto “Everything happens for a reason” con la voce di Michelle. E poi “Your life is fine, you’re taking decisions” attraverso quella di Jeff.

Mi ha parlato persino in una pubblicità sulla fiancata di un vagone della metro, in transito alla stazione di Atlantic Avenue. Passava veloce, ma New York sapeva che avrei alzato gli occhi dal cellulare appena in tempo per leggere: “Find what you love”.

Sì, lo so che qualcuno potrebbe dire che semplicemente ero io che volevo ascoltare più attentamente. Ma allora, come si spiegherebbe quello che è successo a Central Park nel mio ultimo giorno in città?

E’ mezzogiorno di una giornata freddissima e il parco è, stranamente, quasi deserto. C’è appena un grado e l’aria è gelida, ti ghiaccia le mani se ti azzardi a toglierti i guanti, anche se c’è il sole e il cielo è di un blu limpido.
Dopo un autunno eccezionalmente caldo, il freddo è arrivato finalmente in città e ha scoraggiato tanti visitatori e runner.

Tra gli irriducibili ci sono un po’ di turisti, che si scattano foto davanti alla Bethesda Fountain, spenta per le temperature troppo basse, o che camminano stringendosi nei giacconi con le cuffie calate sugli occhi, mentre calpestano le foglie gialle e arancioni che coprono i sentieri. Le carrozze dei cavalli sono quasi tutte ferme e i cocchieri si scaldano le mani con bicchieroni di caffè bollente, aspettando qualche turista impavido.

Non si scoraggiano nemmeno le aspiranti influencer, che non possono rinunciare a una foto a Central Park con i colori dell’autunno. Scopro, così, che la tecnica che va per la maggiore è lanciarsi in testa una manciata di foglie gialle, mentre l’accompagnatore-assistente dell’aspirante influencer (mamma, amica, fidanzato) scatta la foto cercando di simulare la magica e delicata caduta naturale delle foglie. Lo stesso malcapitato, poi, dovrà passare parecchi minuti ad aiutare l’aspirante influencer a estrarre tutte le foglie che le si sono impigliate nei capelli, senza rovinare troppo l’acconciatura.

Scuoto la testa e penso: “Questa città è piena di pazzi, ma mi mancherà da morire”. Ed è lì, di nuovo, che mi sta salendo in gola la tristezza. Ma qualcosa accade. Guardo davanti a me e c’è un gruppo di sei o sette uccellini che volano e canticchiano tra loro sopra a una panchina. Si intrecciano, ruotano, si allontanano e poi tornano indietro come se giocassero. Sono incantevoli e io non riesco a smettere di seguire i loro volteggi.

Poi un uccellino si stacca dal gruppo, scende e si va a posare sullo schienale della panchina, esattamente sopra alla placchetta metallica che si trova su ogni panchina di Central Park.

Ognuna di queste placchette ha incisa una dedica, tutte diverse fra loro. La leggo: “The best is yet to be”, “Il meglio deve ancora venire”. Resto senza fiato.

Anche stavolta New York sapeva esattamente cosa avevo bisogno di sentirmi dire. Fisso la “mia” panchina sorridendo e inizio già a ritrovare la fiducia in me stessa e in quello che mi aspetta a partire da domani.
L’uccellino è ancora lì fermo, seduto sopra alla placchetta con la dedica. Mi guarda. Poi si alza piano sulle zampette, si gira, alza la coda e fa la pupù proprio sopra alla scritta.

Resto immobile a bocca aperta per qualche secondo. Poi mi dico: “Beh, vaffanculo, per me è un segno lo stesso!”.

Attraverso il parco verso l’Upper East Side. A casa, a Brooklyn, le valigie sono pronte e ho già prenotato l’Uber che mi porterà all’aeroporto. Ho ancora tempo per salutare la scalinata del Met.

[ New York, Central Park ]

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