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Alcune cose che ho capito degli ungheresi

Alcune cose che ho capito degli ungheresi. Abbreviano qualsiasi cosa e questa è una gran fortuna quando devi provare a parlare la loro lingua assurda, che alcuni considerano più difficile del giapponese e dell’arabo.


– ‘Salve’ si dice ‘sziasztok’ – mi spiegano – ma puoi dire anche solo ‘szia’. ‘Grazie’, invece, si dice ‘Köszönöm’.
Mio sguardo allucinato.
– Ma va bene anche solo ‘Kösi’.
Sospiro di sollievo.

Quando li saluti nella loro lingua fanno un bel sorriso caldo. Tutti, nessuno escluso. Un piacevole contrasto con il freddo immorale di questi giorni.

Mangiano quantitativi enormi di carne. Che siano salsicce, salami, goulash, polpette, cotolette, stufati non importa. Basta che sia carne. E meglio se contornata da poca verdura. Piuttosto altra carne. Sarà per questo che tra la popolazione magiara le malattie cardiovascolari sono particolarmente diffuse e che l’aspettativa di vita è nettamente più bassa della media europea.

Sono gente malinconica. L’origine di questa tristezza non si conosce ma viene da lontano, tanto che se ne trova traccia anche nell’inno nazionale. Una canzone popolare degli anni Trenta dal titolo “Triste domenica” (poi tradotta in inglese con il titolo “Bloomy Sunday” e interpretata da maestre di spensieratezza come Björk e Sinéad O’Connor) era talmente deprimente che leggenda vuole che diverse persone si siano buttate nel Danubio subito dopo averla ascoltata. Gli ungheresi amano bere ma, visto l’umore cupo a cui sono soggetti, hanno giustamente coniato un’espressione per quella che ai miei tempi si chiamava “la balla triste”: “sìrva vigadni”, “godere tristemente”. Molto eloquente.

Hanno una passione malata per la principessa Sissi. Ai tempi dell’impero austroungarico la moglie di Francesco Giuseppe veniva spesso a Budapest e ogni volta non si faceva mancare una visita allo splendido teatro dell’Opera. A differenza del marito che partecipò solo una volta e si addormentò pure. Sissi è ancora oggi una vera icona, o più precisamente un’ossessione nazionale. A Budapest la principessa è ovunque. Nei nomi di ristoranti e negozi, ritratta in murales, ispirazione per acconciature e profumi. C’è persino una tradizione per cui, in un giorno di febbraio, i bambini delle scuole si vestono e indossano parrucche alla maniera dell’imperatrice e poi se ne vanno in giro riempiendo le strade di tante piccole inquietanti Sissi.

Hanno una passione ancora più malata per il calcio. Voglio dire: tutti in Europa hanno un interesse fuori scala per questa cosa di infilare una sfera in una rete lanciandola con i piedi. Ma questi non vincono mai e vanno comunque fuori di testa. Al punto che nel piano di studi delle università c’era un esame obbligatorio in football senza il quale si poteva dire addio alla laurea e che il vero eroe nazionale è tale Puskas. Che anche se non è proprio come dire Pelè o Maradona qui è venerato come un santo. Infatti quando trapassò con enorme dolore dell’intera nazione, fu seppellito nella Basilica di Santo Stefano a Budapest, privilegio concesso praticamente solo ai re. Il suo merito principale è il ruolo avuto nella mitica vittoria nella “partita del secolo” quando la nazionale ungherese sconfisse l’Inghilterra a Wembley per 6 a 3 nel 1953. L’unica volta in cui l’Ungheria ha vinto qualcosa e non era nemmeno una finale mondiale.

Questa mia piccola esplorazione nell’indole magiara non ha di certo la pretesa di essere esaustiva, ma mi porta a considerare le parole di Enrico Fermi quando lavorò a stretto contatto con gli scienziati magiari del Progetto Manhattan: “Esistono gli extraterrestri? Ovviamente. E sono tra noi. Si chiamano ungheresi”.

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