New York Storie

Fingere

Alle 6 di domenica sera il Fanelli Café è pieno di gente allegra e chiassosa. Qualche viaggiatore di passaggio, curioso di vedere uno dei più antichi bar di New York, ma soprattutto residenti della zona: giovani ricchi di Soho che vivono in loft da 3 milioni di dollari, ma vogliono darsi un’aria un po’ da artista, bevendo birra IPA in un bar alla mano con addosso jeans scoloriti e barba di tre giorni.


A dispetto della sua fama, infatti, il Fanelli, all’angolo tra Prince e Mercer Street serve buoni piatti italiani, birre e caffè a prezzi inferiori alla media dei locali fancy di Soho.Questo bar di quartiere lungo e stretto, con un lungo bancone di mogano, foto in bianco e nero alle pareti, e minuscoli tavoli uno attaccato all’altro, è qui da quasi 100 anni ed è il secondo locale più antico della città.


Ha nutrito generazioni di newyorkesi e molti dei suoi clienti sono habitué. Il Fanelli è rimasto aperto – unico bar a Soho – persino durante l’uragano Sandy.


“Just here, two blocks away”, è la risposta più comune quando chiedi a qualcuno “dove abiti?”. “Proprio qui”, per distinguere chi è del posto, vero residente, da chi è solo di passaggio.

Della seconda categoria facciamo parte io e Marily, incastrate in un tavolino accanto alla vetrina su Prince Street, mentre chiacchieriamo e beviamo birra nelle sue ultime due ore a New York, prima di prendere il taxi che la porterà all’aeroporto per tornare a casa, in Spagna. Ci conosciamo solo da una settimana, ma entrambe viaggiamo da sole e abbiamo legato in fretta. Oggi per lei è il giorno più triste: non vuole partire.


Anche Frederick, tedesco di Francoforte, è qui di passaggio. Siede al tavolo di fianco al nostro e di lavoro cerca di capire quando le persone fingono. Ci racconta che fa il giocatore di poker professionista.


“Cioè, il tuo lavoro è giocare a carte?”, gli chiedo.
“Sì”.
“Ma sulla dichiarazione dei redditi cosa scrivi?! Giocatore di poker?!”, rido.
“Sì”, risponde come se fosse la cosa più naturale del mondo.


Resterà a New York solo per qualche notte, prima di spostarsi a Washington dove è stato invitato a un torneo internazionale con in palio una cifra strabiliante. Poi, naturalmente, Atlantic City e Las Vegas.


“Come si diventa un giocatore di poker professionista?”, gli chiedo incuriosita.
“E’ stato per caso. Prima insegnavo lettere alle elementari. Una sera un paio di amici mi hanno invitato a una partita in casa. Non sapevo nulla del poker, non conoscevo nemmeno le regole. Ho scoperto di essere bravo. Molto bravo. Ho iniziato a partecipare ai tornei. Vincevo sempre. Dopo qualche mese ho lasciato il lavoro a scuola. Ora sono i casinò e gli organizzatori dei tornei a invitarmi perché sanno che se c’è il mio nome in cartellone, le iscrizioni aumentano”.


“E perché saresti tanto bravo?”, gli chiedo.
“Studio moltissimo la strategia, ma soprattutto capisco quando le persone fingono”.
“E come?”
“Perché sono più nervose, anche se cercano di nasconderlo”.
“E da cosa capisci che sono nervose?”
“Piccoli gesti inconsapevoli. Gli uomini si grattano il naso, tamburellano con le dita sul quadrante dell’orologio. Le donne si toccano i capelli, giocano con la collana…”


Mi accorgo che sto facendo ruotare tra le dita il ciondolo della catenina da non so quanto tempo. Stacco di scatto la mano e la appoggio al tavolo, colpevole.


Quando ce ne andiamo è già buio. L’asfalto di Prince Street è umido. Ha piovuto mentre eravamo al Fanelli. Le luci delle insegne al neon colorate si riflettono nelle pozzanghere.


Marily cammina lenta, sempre più lenta, come se questo potesse fermare il tempo.

[ New York, Soho, Fanelli Cafè ]

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