New York Storie

Per sempre

Il mio peggior incubo è diventare come Marily.

Penso questo mentre la guardo spegnere le candeline nel rooftop bar del Public Hotel. Alle sue spalle, l’Empire State Building. Tutto attorno New York al tramonto. Stiamo festeggiando il suo trentaseiesimo compleanno.

E’ la fine di ottobre di un autunno incredibilmente caldo a New York. Marily soffia sulle candeline, che abbiamo installato in equilibrio precario su un brownie al cioccolato, e sorride. Ma non è felice.

È il compleanno che ha sempre desiderato, qui nella sua città del cuore. Non ci sono i suoi amici, né la sua famiglia. Ci siamo, invece, io e William, due quasi sconosciuti che ha incontrato per la prima volta meno di una settimana fa. Ma in questo momento non vorrebbe essere in nessun altro posto al mondo.

Marily ama New York più di ogni altra cosa, ma non può restare. Domenica prenderà l’aereo per tornare nella sua città, Ceuta, in Spagna.
Ricordo cosa si prova a volere così tanto qualcosa e non poterlo avere.

E’ stato William, che è nato e ha sempre vissuto a due passi da qui, a portarci sul tetto del Public “perché – dice – qui c’è la vista più bella di Manhattan”, ma anche perché – dico io – sperava di impressionarci e avere qualche chance con una a caso tra le due.

William è tutto ciò che un nerd può essere: laurea al MIT, faccia tonda, spessi occhiali da vista, pantaloni fuori moda (o che di moda non sono mai stati) e un umorismo tutto suo. Ci racconta delle sue lezioni di canto lirico e di chitarra brasiliana, mentre il suo sguardo si sposta regolarmente dalla mia minigonna al sedere di Marily.

Ma siamo troppo distratte: le ultime luci del giorno stanno scivolando giù dai grattacieli del World Trade Center mentre, all’altro capo del terrazzo, l’Empire inizia ad accendersi per la notte, scintillando d’argento. E io e Marily, non sapendo più dove guardare, saltelliamo eccitate da una parte all’altra del locale.

“E’ una delle cose più belle che abbia mai visto”, penso. E lo dico anche al barista che sta minuziosamente incastrando una fragola sul bordo del bicchiere, per completare il mio cocktail da 19 dollari a base di champagne e polpa di fragola.
“Eh, sì, sono fortunato ad avere questa vista tutti i giorni”, sorride.
Sotto, una musica lounge ci culla leggeri.

Marily non è sempre stata la donna indipendente che ho di fronte. Fino a qualche anno fa non aveva mai fatto nulla da sola. E’ cresciuta all’ombra di sua madre, sempre accompagnata e protetta sotto una campana di vetro.
Non era quasi mai uscita dalla sua piccola città, se non insieme alla madre. Poi, un giorno, sua madre si è ammalata e, poco tempo dopo, è morta.

Marily si è trovata sola, persa. Con il padre, che le aveva lasciate quando lei era piccola, non aveva più rapporti da anni. Non aveva la più pallida idea di come sopravvivere da sola.

Poi un giorno – non so cosa sia successo e non lo sa bene nemmeno lei – ma Marily ha lasciato il lavoro, ha raccolto la liquidazione e i pochi soldi dell’eredità e ha comprato un biglietto di sola andata per il sud est asiatico.

E’ partita da sola, senza sapere nulla del mondo. Da allora non è più tornata a casa. Ha passato un anno viaggiando in tutto il mondo. Si è iscritta ad alcune associazioni di volontariato e ha passato il tempo aiutando bambini orfani e disabili in Asia, Africa e Sudamerica.

A un certo punto è approdata a New York. Se ne è innamorata perdutamente e ha capito che questo era il suo posto.
Ha passato qui due mesi e ha speso ciò che le era rimasto dopo un anno in viaggio. Ora il suo visto turistico sta per scadere e non ha più soldi. Ha provato a trovare un lavoro, ma non c’è riuscita.

Mentre William va al bar a ordinare il secondo giro di drink, io e Marily ci sediamo su un divanetto a fissare i grattacieli illuminati. Ormai è quasi buio, l’aria è quasi fredda, ma non vogliamo andarcene.

“Stanotte non ho dormito. – mi dice – Continuavo a pensare e pensare a un modo per poter restare. Non voglio partire. Ceuta non è casa. Non c’è nulla che mi aspetti là”.

L’unica chance che le rimane è vendere il Rolex che il padre le ha regalato per la laurea, chiuso in un cassetto da quando hanno smesso di parlarsi. Ma quando anche quei soldi saranno finti, si troverà allo stesso punto.
Vorrei accarezzarle la testa e dirle che non si deve preoccupare, che andrà tutto bene.

“Vedrai che troverai un modo”, le dico.
Sto mentendo. Non possiamo sempre avere ciò che vogliamo. Non possiamo sempre avere ciò che amiamo.
“I miei amici mi dicono che sono pazza – mi dice – Non ho un piano. Non so cosa fare della mia vita”
“Nessuno lo sa”. Stavolta sono sincera.

William torna con tre bottiglie di birra.
Prendo la mia e li lascio chiacchierare della nuova impresa di William: imparare lo spagnolo.
“Come si dice ‘c’è freddo’, Marily?”
“Que frio”…

Appoggio i gomiti al muretto del terrazzo e osservo fuori la città che si riempie di luci nel buio. E penso che potrei restare qui per ore. A guardare il sole che si spegne rosso dietro i grattacieli di Downtown, li accende di giallo, di arancione e di fuoco. Poi gli archi del Chrysler Building she si illuminano nella notte. I fanali delle auto che rotolano giù dalla Broadway, luccicano lontani, come se qualcuno avesse rovesciato una manciata di diamanti sull’asfalto. I barboni che si coricano sotto pile di coperte davanti alle vetrine spente di Gucci e Ralph Lauren. I tavoli che si svuotano. La musica che si spegne.

Potrei restare qui per giorni. A guardare infinite albe, il primo raggio di sole che colpisce la Freedom Tower e la accende come una torcia. Le scale della metropolitana che vomitano fuori pendolari distratti al mattino e li ingoiano di nuovo la sera. I carretti degli hot dog e dei falafel che arrivano, riempiono la strada di fumo denso e puzzolente. Le panetterie eleganti che profumano di dolci appena sfornati, i commessi che li coprono di glassa colorata e li impilano con cura in vetrina. Le tate sudamericane che ritirano bambini biondi da scuola. I portieri annoiati che guardano fuori, con il naso schiacciato sul vetro dei portoni. Le persone che si infilano i pantaloncini e le scarpe da ginnastica e vanno a correre sul ponte di Brooklyn. Le bici blu che le sorpassano. I turisti che si fanno scattare foto. Sorridono.

Potrei restare qui, esattamente in questo punto, per anni. Ad aspettare che il profilo dell’Empire si illumini la sera, indovinare di che colore si accenderà oggi. Osservare le saracinesche dei negozi che si abbassano. I cancelli del giardino di Elizabeth Street che si chiudono. Le strade di Soho che si riempiono di scarpe eleganti da 800 dollari che toccano il marciapiede per la prima volta, scendono i gradini di Balthazar’s e del Fanelli. I cinesi di Chinatown che spingono carrelli, strascicano i piedi. I marciapiedi che vibrano quando passa la metropolitana. I ragazzi che si abbassano il cappuccio sugli occhi e vanno a dipingere i muri della Bowery. Le finestre dei palazzi di fronte al Public che si accendono. Le persone che tornano a casa. Accendono televisori. Abbracciano cani. Si sdraiano sui divani. Ordinano cene a domicilio.

Potrei restare qui per sempre. Ad aspettare il primo fiocco di neve che ti cade sul naso. Le mani che si sfregano fredde nelle tasche. I primi fiori gialli che sbocciano accanto alla vasca dei pesci rossi, nel giardino di Elizabeth Street. Le gocce di sudore che ti rigano la fronte d’estate. Si mescolano al vapore che esce dai tombini della metropolitana. La pioggia che cade. Gli ombrelli che si aprono. I neon colorati che si riflettono nelle pozzanghere. Le foglie che cambiano colore. Cadono. Si lasciano calpestare.
E’ di nuovo inverno.

[ New York, Soho, Public Hotel ]

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