New York Storie

Quello che succede sottoterra

subway

Una volta ho letto che la metropolitana è uno dei luoghi con la più alta probabilità che le persone perdano la testa. “C’è qualcosa di innaturale nel trovarsi intrappolati in un’affollata scatola di latta piena di germi, all’interno di un tunnel buio senza apparente via di fuga – diceva l’articolo – che scatena gli istinti animali della lotta per la sopravvivenza e che può provocare veri e propri attacchi di panico”.

Non ho mai percepito la Subway di New York in maniera così tragica (a parte quando sono rimasta a bordo da sola a fine corsa rischiando di finire in deposito, ma questa è un’altra storia). Anzi, mi è sempre sembrata un ottimo punto di osservazione e mi ha consentito di rilevare tanti soggetti antropologicamente interessanti.

Se non avessi preso così spesso la metro non avrei potuto incontrare, ad esempio, l’uomo dalla risata più contagiosa che abbia mai sentito (“ahahahahaheheheaaaaahhh”). O una ragazza uscita in pigiama il sabato sera, che ha suscitato in me grande ammirazione.

Oppure Freddy Kruger che, in piedi davanti alla porta, mi ha fissata in silenzio per tutto il tragitto della linea N da Astoria, nel Queens, fino a Times Square. Sì, lo so, che era la sera di Halloween, ma comunque non mi sentivo del tutto a mio agio.

Se avessi preferito il taxi o il bus alla metro, non mi sarei chiesta con una certa preoccupazione cosa stesse succedendo alle adolescenti americane, quando sono capitata su un treno della linea 4 interamente riempito di ragazzine vestite da prostitute, per poi scoprire che quella sera al Barclay’s Center c’era il concerto di Ariana Grande.

Non avrei visto una donna piangere. O una bambina di tre anni deridere apertamente un giovane aspirante rapper molto convinto di sé, indicandolo con il dito a tutti gli altri passeggeri e ridendo a crepapelle. Non avrei incontrato una coppia che si è tenuta dolcemente per mano guardandosi negli occhi per tutta la durata della corsa.

Se non avessi preso la metropolitana mi sarei risparmiata l’anziana giamaicana che ci ha deliziato con tutto il repertorio di Bob Marley, stonando. Ma non avrei nemmeno sentito musicisti di strada eccezionali, tra cui la bravissima Emma Park-Hazel che mi ha tirato su il morale con una canzone di Sam Smith dopo una brutta serata.

La mia MetroCard è preziosissima. E non solo perché l’abbonamento mensile costa la bellezza di 127 dollari. Ma perché ogni volta che ho strisciato la tessera all’ingresso è stato come fare il biglietto del cinema.
Sulla subway, poi, ho imparato due cose che non ti insegnano in nessuna scuola, ma che non hanno prezzo. Perché ti fanno sentire un vero newyorkese, parte di questa città.

La prima è come strisciare la MetroCard senza far inceppare i tornelli. Ci ho impiegato venti giorni a mettere a punto un metodo infallibile: un colpo di polso deciso alla giusta velocità, né troppo veloce né troppo lento. Dopo aver acquisito la tecnica puoi guardare dall’alto in basso quelli che bloccano il tornello continuando a strisciare e strisciare, mentre il monitor impietoso ripete “swipe again” e il fiume di pendolari dell’ora di punta rischia di tamponarli in pieno. Ah, novellini.

Per la seconda impresa mi è bastato osservare con attenzione. I veri newyorkesi non si preparano mai davanti alla porta del treno per scendere. Restano seduti, impassibili, magari continuando a leggere il loro New York Times. Solo – e dico solo – quando il treno si è fermato e ha aperto le porte, scattano in piedi all’improvviso e balzano fuori. Una volta appoggiati i piedi sulla piattaforma riprendono a camminare con nonchalance verso l’uscita.

[ New York ]

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